Arvid non poteva dire di essere magro, ma di certo non aveva intenzione di ammettere di essere grasso. Dopotutto, non era un cacciatore abbastanza abile da poter diventare veramente obeso. Non che volesse strafogarsi di cibo fino a scoppiare, ma aveva sempre desiderato strafogarsi il giusto. Era un po’ sovrappeso o, come spiegava spesso agli altri cacciatori del villaggio, aveva le ossa grosse e l’addome leggermente sporgente che dava tale illusione.
La sua arma prediletta era l’arco. Non perché fosse particolarmente bravo nel suo utilizzo o avesse una mira migliore degli altri, ma l’arco gli permetteva di colpire la selvaggina senza doverla rincorrere o senza doversi avvicinare di soppiatto tra la vegetazione come facevano alcuni suoi compagni armati di lance e giavellotti. A causa del suo problema di prominenza del ventre era poco agile all’interno della boscaglia e la pancia colpiva spesso rami e arbusti facendo rumore e allertando le prede. Certo, l’arco gli era costato parecchio ma non se ne vedevano tanti di buona fattura al villaggio e Arvid era soddisfatto del suo acquisto. L’unico lato negativo era, ovviamente, dover andare a recuperare le frecce. Tendevano a finire lontano quando si mancava il bersaglio e se non andavano a conficcarsi contro un albero si schiantavano contro un masso, scheggiandosi e spezzandosi o ancora peggio finivano nel terreno, inabissandosi chissà quanto in profondità. Una volta Arvid aveva provato a scavare per recuperarne una: ci aveva impiegato un’ora intera. Alla fine era talmente stanco e sporco di terra che si promise di non farlo mai più.
Dunque decise che se voleva perdere meno frecce avrebbe dovuto migliorare la sua mira. Per questo motivo si allenava tutti i giorni dietro alla dimora in legno dove viveva, ai margini del villaggio. Mirava a faggi, querce e aceri, iniziando dagli alberi più vicini come riscaldamento per poi passare a quelli più lontani. Quando, ogni quattro o cinque frecce, il braccio gli doleva troppo per continuare a tirare, lo scrollava per scioglierlo e andava a recuperarle, imprecando quando avesse dovuto cercarne una che, mancando il bersaglio, era andata a perdersi nella boscaglia. Questo finché non aveva scoperto che suo figlio si divertiva ad assisterlo negli allenamenti. In cambio di qualche dritta sull’utilizzo dell’arco, il ragazzino era ben disposto a recuperare le frecce. Da allora padre e figlio passavano molto più tempo insieme e Arvid ebbe modo di insegnargli tante cose, poi prendeva la sua pinta di idromele e con un sorriso soddisfatto lo guardava saltellare alla ricerca dei dardi.
Tutto quell’allenamento con l’arco gli aveva procurato delle braccia molto forti e Arvid se ne vantava con gli altri cacciatori ogni volta che ne aveva l’occasione. Tuttavia, aveva sempre trascurato di allenare le gambe.
Per questo motivo Arvid fu il più lento del gruppo quando i lupi attaccarono.
Non avevano sentito gli ululati finché non era stato troppo tardi: sagome grigie erano sbucate da ogni dove sfrecciando tra gli alberi. Il profumo di resina e dell’approssimarsi della pioggia venne contaminato dal penetrante odore tipico degli animali selvatici. Gli uomini erano fuggiti urlando in direzione del villaggio ma l’unica cosa che Arvid riusciva a sentire erano i latrati eccitati e lo schioccare delle fauci alle sue spalle. Le gambe volavano una falcata dopo l’altra a una velocità che non credeva possibile mentre sentiva montare un terrore primordiale come ghiaccio che gli risaliva la schiena. Nonostante si muovesse più velocemente di quanto avesse mai fatto, Arvid stava perdendo terreno rispetto agli altri cacciatori, mai come in quel momento maledisse la sua pigrizia e la pancia sporgente. Urlò chiedendo aiuto, implorò gli altri di aspettarlo con voce resa stridula dalla paura ma nessuno si attardò, nessuno si voltò con la lancia pronta a colpire fronteggiando il branco di lupi. Non era un comportamento usuale per gli animali selvatici e i cacciatori non sapevano come comportarsi se non fuggendo.
Presto Arvid scoprì quanto il fiato speso a urlare gli servisse invece per continuare a correre. Aveva la bocca asciutta e il fiato corto. Sentiva le zampe dei lupi che colpivano il terreno alle sue spalle.
L’avrebbero raggiunto.
Gli altri cacciatori non erano più in vista quindi Arvid decise di voltarsi e combattere in quello che era un tentativo disperato di sopravvivere ma mise un piede in fallo.
L’impatto con il terreno gli fracassò il naso. Ruzzolò per alcuni interminabili secondi e poi finì supino annaspando per prendere aria. Sentiva forte l’odore delle foglie misto con quello del sangue e il sapore amaro del terriccio in bocca.
I lupi gli si scaraventarono addosso azzannandolo in più punti, strattonando gli arti nel tentativo di strappare qualche brandello di carne dalle ossa. Arvid urlò come un maiale al macello sputando il terriccio. Un polpaccio venne dilaniato con un deciso strappo: i denti stridettero sull’osso e Arvid quasi perse conoscenza per il dolore. Un lupo particolarmente grosso appoggiò le zampe anteriori sul suo torace inchiodandolo a terra. Ringhiò a pochi centimetri dal suo volto con il fiato che puzzava di carogna. Un rivolo di bava collosa colò impastandosi nei capelli. Arvid urlò terrorizzato, impotente davanti alla belva, attendendo il colpo di grazia che sapeva sarebbe giunto di lì a poco. Il lupo lo addentò in pieno volto inondandolo con il suo alito fetido. I denti scavavano nella carne delle guance tagliando la pelle come coltelli. Arvid poté percepire la palpebra che veniva strappata mentre un canino penetrava nell’occhio sinistro spaccando a metà il cristallino.
Senza più fiato per urlare, Arvid venne preso dal puro istinto. Strattonando le braccia riuscì a liberarsi dai lupi, i quali rimasero con le maniche strappate della camicia tra i denti. Estrasse il pugnale dal fodero e lo piantò nel collo del lupo che gli stava divorando il volto. Mai come in quel momento benedisse i continui allenamenti con l’arco. Spinse la lama con tutta la forza che gli rimaneva, afferrando la testa del lupo con l’altra mano all’altezza dell’orecchio per fare leva finché la lama non penetrò fino all’elsa. Il lupo tentò di ritrarsi con un latrato ma Arvid lo trattenne e con uno sforzo sovrumano spinse lateralmente il pugnale aprendo uno squarcio lungo metà della circonferenza del collo tagliando carne e cartilagine. L’ululato si estinse in un gorgoglio quando le corde vocali vennero tranciate e il sangue inondò la trachea della bestia, la quale si accasciò su di lui, schiacciandolo con il suo peso, esanime.
Arvid era sicuro che gli altri lupi l’avrebbero divorato vivo, ma era contento di essersi portato la bestia nella tomba. Pensò a suo figlio e a sua moglie, che lo aspettavano a casa. Gli si inumidirono gli occhi nell’immaginare che spavento si sarebbero presi vedendo tutti i cacciatori tornare terrorizzati senza di lui. Come avrebbero fatto da soli? E cosa avrebbero pensato gli Dei di una tale morte? Sarebbe stata considerata una fine onorevole?
Mentre queste e molte altre domande gli vorticavano nella mente, con suo grande stupore i lupi che fino a un momento prima banchettavano con la sua carne, smisero di avventarglisi contro e alzarono la testa come disorientati. Pochi secondi dopo si diedero alla fuga. Arvid non ebbe tempo di interrogarsi sul loro comportamento perché gli occhi gli si appannarono e perse conoscenza.
Quando rinvenne si sentiva completamente intorpidito. Non riusciva ad aprire gli occhi e si fece cogliere dal panico, portò le mani al volto per stropicciarli e quando toccò il viso maciullato e l’occhio spezzato un’ondata di dolore gli esplose nel cranio, come se qualcuno ci avesse tirato dentro dei tizzoni ardenti. Gemette e non gli rimase altro da fare se non aspettare che il dolore passasse. Quando riuscì di nuovo a pensare lucidamente scoprì di star piangendo. Scrostò i grumi di sangue dall’occhio sano facendo attenzione a non toccare altre parti del volto. Dovette sforzarsi di reprimere il pensiero di come dovesse apparire al momento per non cadere nella disperazione più nera. Si concentrò sul fare respiri profondi e calmarsi.
Il cielo sopra di lui era sempre più scuro, ammantato da nubi cariche di pioggia. Provò ad alzarsi ma qualcosa lo bloccava a terra. Il cadavere del lupo, rammentò, ma quando guardò, quello che vide lo lasciò frastornato. Rimase fermo a bocca aperta per diverso tempo cercando di capacitarsi del fatto che al posto dell’irsuto cadavere della bestia, sopra di lui era adagiato il corpo di un uomo sulla quarantina, calvo e con la gola squarciata da parte a parte. Prese la testa del morto e la rigirò verso l’alto per osservarla meglio al che la colonna vertebrale emise un lieve crack e la testa gli rimase in mano. La portò vicino all’occhio sano e la studiò: non aveva mai visto quell’uomo al villaggio, doveva provenire da qualche altro paese. Gettò la testa di lato mandandola a rimbalzare sul fogliame.
Si sentiva frastornato e per un momento delirò balbettando, attraverso la mente gli balenarono un milione di pensieri senza che riuscisse a elaborare ciò che aveva visto. Decise che per evitare di impazzire completamente avrebbe dovuto accantonare quella faccenda per il momento. Scostò il resto del cadavere e vide che l’armatura di cuoio bollito aveva protetto il busto dalla furia del branco ma non si poteva dire lo stesso della gamba destra, completamente squartata.
Si mise seduto. Era coperto di sangue e si trovava all’interno di una pozza scura. Non vi era segno degli altri cacciatori e il suo arco giaceva poco lontano. Arvid si trascinò strisciando sulle foglie che ammantavano il terreno e che gli rimanevano appiccicate su tutto il corpo a causa del sangue che fungeva da collante. Quando raggiunse l’arma la raccolse. Il vento frustava gli alberi mezzi spogli sollevando le loro chiome rosse, arancioni e gialle. Arvid si appoggiò all’arco per tirarsi in piedi proprio mentre le prime gocce iniziavano a cadere e un fulmine in lontananza seguito dal tuono suo compagno annunciava l’inizio del temporale. Doveva trovare un riparo e accendere un fuoco per tenersi al caldo, non poteva rimanere sotto l’acquazzone nelle condizioni in cui si trovava. Fece mente locale e ricordò di conoscere una grotta nelle vicinanze. Tenendo l’arco con entrambe le mani per aiutarsi a trascinare avanti la gamba destra, si incamminò.
La pioggia aumentava di intensità, l’acqua e il vento, spietati, gli rubavano il poco calore che il corpo riusciva a produrre. Dopo pochi minuti che gli sembrarono un’eternità giunse in vista della grotta e tirò un sospiro di sollievo: almeno non sarebbe morto di freddo. Rinfrancato dalla rinnovata speranza di rivedere la sua famiglia, usò l’arco per spingere un cumulo di foglie e legna all’interno della caverna. Fortunatamente non pioveva da molto e lo strato superficiale di foglie aveva mantenuto asciutta la legna sottostante.
Con una smorfia di dolore, Arvid appoggiò la schiena alla parete rocciosa e si lasciò scivolare a terra. Separò le foglie asciutte da quelle bagnate e dai legni. Prese dalla tasca acciarino e pietra focaia e iniziò a batterli uno contro l’altra direzionando le scintille sul mucchio di foglie secche. Quando queste presero fuoco, Arvid afferrò uno ad uno i bastoni che aveva raccolto e iniziò a posizionarli a raggera partendo dai più sottili e quando anche questi presero fuoco, aggiunse quelli più spessi.
La pioggia all’esterno batteva con violenza ma Arvid non se ne preoccupò. Era all’asciutto e aveva accumulato abbastanza legna da poter tenere acceso il fuoco per il resto della giornata e tutta la notte. Il problema più grave erano le ferite: molte erano profonde e slabbrate e non aveva nulla con cui medicarsi. La sua unica speranza era di sopravvivere fino al mattino successivo e che i suoi compagni tornassero a cercarlo. Strappò qualche lembo di stoffa dagli abiti già ridotti in brandelli e li usò per fasciare la ferita al polpaccio, sicuramente la più grave, dalla quale la perdita di sangue non accennava a fermarsi.
Dovendo riposare, si trascinò vicino al fuoco in modo che il falò facesse da scudo tra lui e il freddo vento esterno e si distese a pancia in su. Le fiamme illuminavano completamente la piccola caverna che non era più profonda di una ventina di passi e larga appena a sufficienza da permettere ad Arvid di stendersi di traverso. Le pareti erano di liscia roccia marrone scuro striate da venature più chiare. Su un lato alcuni graffiti spiccavano bianchi sullo sfondo, rappresentanti una moltitudine di omini stilizzati che inseguivano alcuni animali a quattro zampe scagliando delle lance. Arvid scivolò nel mondo dei sogni rimpiangendo di non avere un cuscino.
Si svegliò di soprassalto ansimante e con l’occhio sbarrato, se possibile stava ancora peggio di prima. La sensazione di bruciore al viso si era acuita mentre il fuoco era ridotto a poco più di braci incandescenti. La tempesta era passata e la foresta era rischiarata dal tenue bagliore della luna, alcune gocce scivolavano ancora dalle foglie per gettarsi a terra. Doveva aver smesso di piovere da poco.
Arvid ravvivò il fuoco e aggiunse altra legna. Dopo essersi pulito le mani sui pantaloni macchiati di sangue si decise a verificare le condizioni del viso: sfiorò leggermente la fronte sentendola incrostata di sangue rappreso. Non aveva bisogno di controllare l’occhio sinistro per sapere che era inutilizzabile ma rimase sconvolto nel non trovare la palpebra e una fitta di dolore gli colpì direttamente il cervello quando le mani entrarono in contatto con l’occhio spaccato. Più in basso sentì il naso rotto e sulla destra la guancia con la barba ribelle indurita dal sangue, mentre a sinistra… denti. Ritrasse la mano di scatto e gemette. Le lacrime iniziarono a scendere dall’occhio sano mentre i singhiozzi si fecero più forti. Anche se fosse riuscito a sopravvivere alla notte e se i suoi compagni l’avessero trovato, la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa, lui non sarebbe mai più stato lo stesso. Deturpato. Mostruoso. La sua vita era rovinata. Fu colto da un conato di vomito e rigettò di fianco al focolare. Per qualche lungo attimo rimase immobile a contemplare la propria disperazione. Un filo di bava gli colava dalla bocca.
A un tratto notò alcuni puntini luminosi giallo-arancioni in mezzo alla foresta. In un primo momento restò con lo sguardo fisso senza capire cosa fossero, poi ebbe una rivelazione: torce! Cercò di urlare per attirare l’attenzione dei compagni ma tutto ciò che gli uscì dalla gola fu un sibilo strozzato. Al secondo tentativo emise un rantolo rauco e scoppiò in un accesso di tosse.
Sputò e due denti caddero a terra.
Arvid li guardò stupefatto. Solo allora notò la peluria che aveva sulle mani, decisamente più folta di quanto ricordasse. Mentre ne esaminava il dorso percepì le ossa delle falangi stiracchiarsi. Sbatté l’occhio incredulo come per riprendersi da un’allucinazione ma non stava immaginando niente: le sue mani si stavano allungando! E per ogni millimetro che guadagnavano, Arvid veniva afflitto da fitte di dolore sempre più acute. Digrignò i denti sentendo le mani bruciare come se andassero a fuoco. Sentì l’armatura di cuoio pressargli la cassa toracica come se si stesse rimpicciolendo, comprimendolo al suo interno. Annaspò cercando di respirare, ma i polmoni non riuscivano a espandersi e venne preso dal panico temendo di morire soffocato. Poi i lacci che chiudevano l’armatura si strapparono, liberandolo. Arvin respirò a pieni polmoni e guardò il proprio corpo: era abnorme e c’era uno strano movimento sotto la pelle.
«No!», esclamò. «No. No, no, no…», iniziò a balbettare mentre si sentiva ribollire le interiora, come se gli organi si stessero ingrandendo e riposizionando.
Le ossa si ruppero e risaldarono con sordi schiocchi.
Arvid urlò in agonia.
Possibile che la creatura che l’aveva assalito fosse un licantropo? Arvid ne aveva sentito parlare, i cacciatori raccontavano sempre storie intorno al fuoco di notte. Non aveva mai creduto a tali favole, non finché si era svegliato con il cadavere di un uomo dove poco prima aveva sgozzato un lupo.
La fasciatura sulla gamba era sporca di sangue e pus ma quando la stoffa si strappò, la gamba sotto di essa era guarita! Vedendo la pelle neoformata, che si stava riempiendo di ruvidi peli ispidi, ma comunque guarita, Arvid si toccò nuovamente il volto in un impeto di speranza: lo trovò tonico e con la carne al posto giusto! Dove prima c’era un buco nella guancia che si connetteva alla bocca, lasciando scoperti i denti, ora la carne era calda e sembrava in fermento sotto alle sue dita. Ciò che trovò orripilante fu la sensazione di crescita che percepì: sembrava che qualcosa gli stesse tirando il volto, o meglio che una forza sconosciuta spingesse in avanti la faccia dall’interno.
Perché a me? No, no, non questo!
Arvid urlò guardando la punta del naso allontanarsi dagli occhi. Si stava trasformando! Non era un sogno! Arvid pregò di svegliarsi in quel momento, ferito e in preda alle infezioni… ma umano! D’un tratto si rese conto di cosa sarebbe diventato: una creatura maledetta abbandonata dagli Dei. Pensò ai suoi compagni che in quel momento erano fuori a cercarlo, come lui aveva visto le loro torce loro potevano aver notato il falò che aveva acceso. Potevano essere diretti da lui in quel preciso momento! Non poteva sopportare di uccidere quelli che erano i suoi amici da tutta una vita. Desiderò di morire in quell’istante. Meglio la morte che diventare un mostro.
Ma non sarebbe morto, lo sapeva: la maledizione lo aveva curato e ora lo stava trasformando. Le ossa dei piedi e delle gambe si allungarono a loro volta modificando la propria forma a livello delle giunzioni. Cercò di raggiungere il fuoco per spegnere le fiamme, ma i dolori della mutazione gli impedivano di muoversi e le gambe dinoccolate erano sproporzionate. Barcollò e cadde più volte prima di raggiungere il focolare. Scaraventò da parte i tizzoni ardenti con un colpo della mano facendoli volare per tutta la caverna. Le spesse unghie che sbordavano dalle dita lasciarono graffi bianchi sulla nuda pietra. Arvid osservò sconvolto quella che ormai era una vera e propria zampa mentre un sottile pennacchio di fumo si alzava dalla peluria bruciacchiata. La colonna vertebrale si incurvò costringendolo a una posa gobba. A uno a uno anche i denti rimasti caddero, soppiantati da lunghi canini seghettati. Arvid si inarcò per il dolore e lanciò un ululato graffiando la parete: gli artigli stridettero sulla roccia lasciando dieci righe bianche sui graffiti degli antichi cacciatori.
I sensi si erano acuiti: alla luce della luna poteva distinguere i dettagli della foresta, ogni singola foglia a decine di metri di distanza e l’odore dei cacciatori giungeva forte al suo naso. Il vento portava alle orecchie i più flebili rumori: lo scoppiettare delle braci, il canto dei grilli e il gocciolare dell’acqua dagli alberi.
«Arvid!», era il grido che echeggiava nella foresta ma Arvid non poteva più comprendere il suo significato perchè non era più un essere umano. Era diventato un altro tipo di cacciatore, un predatore spietato che rispondeva solo ai suoi più bassi istinti.
Arvid era affamato.
Quando il sole si alzò su un nuovo giorno, Arvid si svegliò nel mezzo della foresta. Aveva un forte mal di testa, era completamente nudo e ricoperto di sangue ma tutto sommato si sentiva bene. Le ferite erano guarite, riusciva a camminare e il suo corpo era tornato normale, tutto a parte l’occhio sinistro. Toccandolo scoprì che la palpebra si era rigenerata e l’occhio sembrava intatto, ma rimaneva cieco.
Decise che si sarebbe arrangiato con un occhio solo e andò di corsa verso la caverna dove si era riparato la notte precedente ma le sue speranze furono infrante dalla cruda verità: una dozzina di corpi giacevano a terra, smembrati e parzialmente divorati. Al pensiero d’aver ucciso e mangiato i suoi vecchi compagni venne colto dalla nausea e vomitò copiosamente. Raggiunse il villaggio senza curarsi di essere completamente nudo, pregando che non fosse successo niente alle loro famiglie.
Ma non vi erano sopravvissuti.
Entrò a casa sua e ciò che vide fu la conferma di quanto aveva più temuto: ciò che rimaneva dei corpi di sua moglie e suo figlio erano sparsi ovunque.
Arvid cadde in ginocchio e pianse.
Era solo.
Solo con la maledizione.331Please respect copyright.PENANAd7r1cMMVTQ