Stanotte ho avuto l’ennesimo incubo, che mi perseguita da tempo, ormai: ho sognato di perdere tutti i denti. La prima cosa che ho fatto appena sveglia è stata controllare con la lingua se c’erano ancora. Li ho subito sentiti, per fortuna, forti e regolari come piccoli alberi. Le persone tranquille non sognano queste cose, è che io la calma me la sono giocata per sempre. Anzi, forse non l’ho mai avuta. E nella mia testa sento sempre la solita voce, che ripete: “Che hai fatto?”
La prima volta che la vidi potevo avere cinque anni. Stringevo la mano di mio padre, nel mio cappotto rosso Natale. Ricordo persino cosa pensavo nell’esatto momento in cui la sua sagoma attirò la mia attenzione. La mia mente correva al regalo che i miei genitori mi avevano promesso, ovvero una macchina fotografica blu, uno dei miei colori preferiti. Prendere atto della sua presenza mi diede la stessa sensazione di un camion carico di neve, che ti scarica addosso il suo contenuto, mentre il tuo corpo conserva ancora il calore del fuoco su cui ti riscaldavi sino a un attimo prima. Lei era bionda quanto io ero scura. Aveva un fisico ossuto, sgraziato. Mi ricordava un fenicottero, senza il rosa. Indossava un giubbino nero, usurato. Di quella che diedi per scontato fosse sua madre pensai che fosse brutta, trascurata. La cosa che mi creò da subito quella sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco fu, però, lo sguardo di quella bambina.
Due occhi azzurri, che sfiguravano su quel corpo scheletrico, mi guardarono dall’alto verso il basso. Oggi lo so, quell’occhiata rivolta a me era di consapevolezza. Voleva dirmi, a parole sue, che lei si sarebbe presa comunque quello che voleva, da sola, a modo suo. Mi aveva avvisata.
Quella bambina si chiamava Evelin. La vedevo spesso, perché quello in cui vivevamo era un paese piccolo e incontrarsi era inevitabile. Frequentavamo la stessa scuola elementare, ma stavamo in classi diverse. Evelin era povera. Si vedeva dai vestiti smessi che indossava, dalle scarpe che la madre le comprava più grandi per durarle più tempo. Lo zainetto che portava a scuola glielo vidi per tutti i cinque anni delle elementari, alla fine cadeva a pezzi e dalla fodera si intravedeva il contenuto. Lei invidiava me e le cose che possedevo: i vestiti sempre all’ultima moda, i giocattoli, il
rispetto dei compagni, le lodi delle maestre, il mio papà. Lei un padre non ce l’aveva, invece. Io la odiavo, la sua sola esistenza mi urtava. Dalla mia nascita ero stata abituata a circondarmi esclusivamente di cose belle e lei era uno sputo in un occhio, la macchia nera che deturpa un dipinto diversamente perfetto, il sale in un dolce. Non sono mai stata buona, io. Tutto mi era dovuto, i miei genitori mi hanno viziata, da figlia unica quale ero, e questo ha contribuito a fare di me quella che sono diventata. Sono Alma, il mio nome significa nutrimento. Spesso sono stata veleno, nel migliore dei casi glucosio. Dentro me c’è un vaso di pandora che è meglio non scoperchiare.
Vivere in un paese molto piccolo significa che tutti si conoscono, che non puoi nasconderti. La privacy non esiste, è tutto pubblico. La mia famiglia era conosciuta. Mio padre era un avvocato e mia madre faceva la professoressa, lavoravano entrambi fuori dal paese. Di conseguenza anche io venivo stimata e adorata. Ero figlia di persone per bene, una bella bomboniera dentro la sua vetrina di cristallo. A prescindere dai miei genitori ero convinta di contare qualcosa. Sapevo di essere intelligente, furba, scaltra. Gli altri mi ascoltavano, mi seguivano.
Quando ci riunivamo in comitiva, sino a quando non arrivavo io a tenere banco in piazza non si faceva nulla. La cosa che mi mandava in bestia era solo una: anche per Evelin era così. Lei aveva la mia stessa influenza, ma senza fronzoli. Facevamo parte di due gruppi diversi, però. Ci mettevamo agli opposti della piazza, ognuna con il suo perimetro da colonizzare. Non ci siamo mai intralciati, ci rispettavamo. L’unica volta che ci scontrammo fu a causa di Evelin.
Continua...
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