Alla luce di questi fatti, in siffatte pagine, se voi lettori avrete la pazienza e la volontà necessarie, potrete assistere a quella che vuole essere “una confessione di vita”. Imparerete la mia storia, così come me medesima l’ha vissuta.
Il mio proposito, che mi accompagnerà e che animerà i miei scritti sino alla fine, sarà quello di divenire per voi, ciò che spesse volte viene definito “un libro aperto”. In quello che sarà un viaggio od anche un’odissea densa di ricordi, scoperte, domande e riflessioni. Dove voi, miei lettrici e lettori, indosserete le vesti di un aviatore o di un’Ulisse. O perché no? Entrambi. Ai posteri l’ardua sentenza.
Come per tutte le storie che si rispettino, anche questa ha un suo principio… Tutto ebbe inizio nel mese di gennaio, e più precisamente l’8 gennaio del 2002. A quel tempo ad un orario imprecisato, io vidi come si suol dire, la luce per la prima volta.
Uscii dal grembo materno, da quel rifugio così sicuro e caldo.
Bastò quest’unico gesto per catapultarmi verso un campo aperto, per me ignoto: Il mondo.
Venni affidata ad uno sperduto paesino calabrese affacciato sul mare. Lì in una asettica stanza di ospedale, come spesso accade per i bambini, fu una lagna, il mio vagito, a sancire la mia entrata in scena. A farmi diventare sotto ogni punto di vista un’abitante del mondo. Un’abitante tra i tanti, che andava ad aumentare la folla già
esistente.
La mia venuta al mondo non può in nessun modo dirsi baciata dal fato. Né sarebbe corretto affermare che io sia stata concepita sotto la più propizia delle stelle.
Perché mi spingo a cotanto pessimismo?
Beh, essenzialmente per due ragioni. La prima è legata a doppio filo alla mia data di concepimento.
Io sono nata ben tre giorni dopo quanto si era preventivato. È indubbio che così letta, privata dal suo contesto, la frase precedentemente scritta non appare per niente insolita. Anzi, forse racconta un fatto più comune di quanto possa credere. Tuttavia, col senno di poi, ammetto che non poche volte mi sono trovata ad interpretare e decifrare, vestendo i panni di fattucchiera, questa vicenda come qualcosa di più significativo, di più profondo. Crediate pure che io sia uscita fuori di testa, o peggio che stia lasciando volontariamente correre la fantasia per attirare, forse, l’attenzione di qualche lettore. Ve lo concedo questa volta. Ma quella deviazione temporale, quell’appuntamento mancato, dal mio punto di vista, non è stato frutto del caso. Ma la prova di quello che chiamano istinto di sopravvivenza.
Si, avete letto bene. Per mezzo di questo meccanismo, frutto di secoli di evoluzione, ho subito afferrato che sarebbe stato immensamente vantaggioso, per me, trattenermi lì dentro, avvolta e protetta dal corpo di mia madre. Non mi sarebbe assolutamente convenuto abbandonare quel luogo che mi aveva fino ad allora accolta e riverita.
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Ahimè però, la forza della natura è soverchiante e dopo appena tre giorni di strenua resistenza, venni sopraffatta. Il corpo di mia madre ormai stanco di ospitare quella creatura che lo aveva impegnato per mesi, mi sfrattò. Partorì.
La seconda ragione è invece ancorata al mio pianto, alle mie prime urla. Sì, perché queste ultime non si sono limitate a recapitare la mia rivendicazione di essere umano, diversamente, portarono con sé altro. Questo “altro” non passò inosservato ai medici, che prontamente si apprestarono ad affibbiargli un nome: bronchiolite. Anche qui, nulla di grave fortunatamente, ma come prima, anche questa vicenda riguardandola in retrospezione non potei fare a meno che interpretarla come una premonizione. Un segno che mi ravvisava di come sarebbe stata la mia vita d’ora in avanti. Segnata dalla malattia e dalla sofferenza.
Ad ogni modo, passarono i giorni, e dopo una fatica più grande del previsto io e mia madre potemmo finalmente andare a casa. Ma come nel mondo gastronomico una ciliegia tira l’altra, nella mia vita sembra che siano le malattie a tirarne di altre.
Appena dopo pochi giorni dalla mia nascita, dovetti di corsa ritornare in ospedale, dove nuovamente i dottori con eguale prontezza, diedero un nome a questa nuova
mia pena: broncopolmonite. Per alleviare la mia sofferenza, e per aiutare la mia guarigione, venni intubata. Ma si sa, nulla va mai come previsto, soprattutto nella mia vita dove questa regola sembra adattarsi spaventosamente. Troppo, oserei dire.
Il tubo dell’ossigeno non voleva sapere di aiutarmi, era infatti rimasto annodato, come il laccio di una scarpa, su sé stesso. Ci pensò mio padre ad intervenire ed a diventare il mio eroe, sciogliendolo e dandomi finalmente sollievo. Nonostante questa
disavventura, alla fine anche questo sfortunato accidente, come gli altri, si risolse nel migliore dei modi. Ovvero con me che ritornai a casa sana e salva.
Ma ecco, che nel mentre stavano trascorrendo i primi anni di vita, questi furono segnati da una bizzarra quanto angosciante mia reazione, associata alle persone che tentavano di prendermi in braccio.
Vi starete adesso domandando: cosa mai può esserci di addirittura angosciante, in una reazione che proviene da una neonata nei suoi primissimi istanti di vita? Come mai potrà reagire questa? Scalciando i suoi piedini? Piangendo e strillando? Picchiando con le sue manine perfino?
Concordo con voi, in queste reazioni non c’è nulla di inquietante. Difatti, non faccio riferimento a niente del genere.
Ebbene, sarò sincera e diretta, quando venivo presa in braccio, le mie narici smettevano qualsiasi scambio di aria con l’esterno. La mia bocca si serrava. In soldoni smettevo di respirare. A quanto pare, io odiavo le persone che mi prendevano in braccio e quello era il mio modo di reagire.
Come potete ben vedere cari lettori, l’inizio della mia esistenza è stata costernata da eventi e da avvenimenti a dir poco incredibili e oscuri.
Nuovamente, il luogo più adatto a risolvere questa grana fu l’ospedale. Anche in questo caso a portare un po' di chiarezza ci pensarono i medici, i quali informarono i miei genitori della diagnosi, la quale concluse, che questa stramba quanto drastica
reazione non era niente più che un capriccio infantile, una fisima. Allo stesso tempo però, raccomandarono vivamente alla mia famiglia di spingermi e dissuadermi con ogni mezzo possibile a rinunciare a tale comportamento, prima che potesse accadere qualcosa di davvero terribile ed irreparabile. Così fecero loro.
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Dalla visione di questo quadro infantile, dalle tinte fosche, giunge, con l’esperienza e la maturità, ad assalirti l’irrazionale convinzione in cui ravvisi nella Vita, una madre, la quale ti dona corpo e mente, ti concede di camminare sul mondo. Eppure, allo stesso tempo ravvedi in lei una matrigna crudele, che subito si pente di averti formato dalla materia, di averti fatto nascere.
Pare rinnegarti, pare volersi sbarazzare di te. Rassomiglia ad una macchina apatica, la quale con movimenti meccanici, o se preferite leggi naturali, ti partorisce, e di poi, non vuole più prendersi cura di te, divieni orfano del mondo.
Prende avvio nella tua natura, un processo che tocca istantaneo due antipodi: da gioiosa esistenza pervasa da unicità, divieni un apolide dell’Universo.
Soprannominerei tale processo, credo non a torto: “decadimento esistenziale”, ispirandomi alla radioattività, e così, peraltro, da far sembrare a voi lettori di essere una ragazza dalla vasta conoscenza.
In quanto, da natura primeva di “prescelto”, ovvero di colui che è ha avuto l’onore di essere stato plasmato a partire da una zuppa informe di atomi e particelle, o se vi è più favorito, scelto a partire da uno spermatozoo e un ovulo, per costituire un essere vivente complesso e sensibile, di poi, precipitoso “decadi” ad esistenza solitaria. Ci sentiamo unici, forse finanche superiori giacché posti in una condizione di esistenza elevata, quella di uomini. Ciononostante, se pazienti riflettiamo sulla realtà concreta, giungiamo a scoprire di essere futili, il cui destino non è considerato importante dall’Universo.
Siamo un po' come degli aristocratici ridotti in miseria, anzi è la vita stessa, forse, a rispecchiare tale condizione.
Il nobile nasce con il privilegio di poter usufruire di ricchezze e privilegi immani, di ogni sorta di comodità. Vive credendo di poggiare su di un livello superiore rispetto agli altri. Eppure, quando egli, malauguratamente, si troverà a cadere nell’indigenza,
capirà, forse, di non essere affatto “baciato da Dio” o dal “Fato”, di non essere poi così diverso dagli altri uomini nella sostanza. Così noi uomini affrontiamo un capovolgimento simile. Ci sentiamo fortunati, degli eletti nell’essere nati, nell’essere colui che la Natura ha reso uomo in carme ed ossa, portatore della vita, e perciò in grado di assaporare la vita stessa. Ma poi ci accorgiamo che sia la Natura che l’Universo, sono “freddi”, indifferenti rispetto a noi. Ci ritroviamo nella condizione in cui, quasi per forza gravitazionale, sembrano ricadere tutti i dolorosi inciampi possibili.
La Vita, fenomeno contraddittorio, insieme dono immenso e castigo perverso e crudele.
Che sia la Vita stessa a considerarci, immediatamente dopo averci foggiato, un inciampo? Oppure questa, non è che una considerazione insensata dettata dalle emozioni umane? Dopotutto, la Vita è cosciente? Procede per fini e scopi?
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