Come dettano le leggi della fisica e dell’Universo, il tempo continuò a fluire imperterrito. Al susseguirsi dei mesi, all’aumentare della mia età, così mutualmente aumentava l’amore che provavo verso i miei fratelli maggiori.
Non ve lo avevo raccontato? Perdonate la mia dimenticanza.
Ebbene sì, sono quella che viene comunemente definita come l’ultima arrivata, la piccolina di casa. Come avete potuto sicuramente dedurre, molti anni prima che io nascessi, mia madre aveva già provveduto a dare i natali a due dolci maschietti. I quali
sarebbero poi diventati, col tempo, i miei due fratelli maggiori. O come mi piace ricordarli, i miei due preziosi fratelli maggiori.
Loro, sono le mie aurore polari….
Badate bene, non dico ciò perché è la prima immagine poetica che mi sia saltata in mente e ho, dunque, deciso di usufruirne per suscitare un paragone affascinante. Mi ritrovo a fare uso di tale analogia in quanto come sapete, tale fenomeno atmosferico, è un evento segnato dall’ insolito e dal singolare. Non appare in ogni zona della cupola celeste, non si manifesta in ogni dove.
Ugualmente come i miei fratelli. È vero, esistono moltissime famiglie con più figli, e pertanto fratelli, ma al contempo esistono anche moltissime famiglie con il, così designato, figlio unico. I miei genitori non erano obbligati a dar alla luce tre bebè, avrebbero, anzi, potuto bloccarsi al primo nascituro. Ecco spiegato perché i fratelli, almeno per me, sono un “fenomeno”, un qualcosa, che se non raro, è quantomeno peculiare. Inteso come non necessario.
Per di più, con la sua iridescenza questo drappo brillante, vorticoso nell’apogeo, invade ingombrante il cielo notturno, copre le sue stelle e il suo spazio.
Parimenti i miei fratelli, inesorabili, dilagano nella mia vita e nei miei spazi, li usurpano e li riempiono con i loro schiamazzi e le loro movenze.
Ebbene, però, non pensate di leggere qui, in queste righe, una volontà di privilegiare la famiglia numerosa a discapito del povero figlio, che, come la pecorella smarrita, viaggia solitaria. In quanto sorella, non posso che disquisire sulle specificità che accompagnano l’affetto fraterno. Ciò significa che certamente chi si ritrova ad essere figlio esclusivo, saprà raccontare le singolarità e le magnificenze di tale condizione. Mi pare inutile rammentate, ma comunque lo faccio, che ogni situazione ha il suo risvolto, ogni moneta ha la sua testa e la sua croce. Così il cielo ha la sua aurora ma anche il suo sole di mezzanotte.
A ogni modo, ammetto che spesse volte mi sono domandata: “Chissà quanto peggiore sarebbe la mia esistenza senza di loro?”
Invero, come avrei mai potuto fare senza di loro. Senza loro, che sono stati i miei druidi, i quali con i loro riti incantati riuscivano a decifrare la matassa più ingarbugliata. Ovvero, tradotto da estro fanciullino a verità concreta: senza loro, i quali, dotati di grande ingegno, mi aiutavano a sistemare i disastri da me causati. Come pulire, quando per colpa della mia leggerezza, buttavo il bicchiere colmo di liquido sul pavimento appena lavato da mamma.
Loro, che sono stati la mia ciurma di pirati, con cui andavamo, forti del nostro vascello, ad esplorare i mari più temerari. Per scoprire, infine, il baule pieno d’oro. Ovvero, con i quali uscivo per giocare nei campi vicino casa, di cui avevamo oramai memorizzato
ogni zolla presente. Per affrontare non i mari tempestosi, ma le api e le vespe che ci minacciavano, e di più, per andare alla ricerca non di ricchezze ma di pietre dalle forme strambe.
Loro, i quali sono stati i miei compagni inseparabili, i miei scudieri in battaglia, sempre pronti a guardarmi le spalle, senza mai abbandonarmi. Forse troppo però! Non conoscevano il concetto di spazio personale? Non potevo mica giocare sempre con loro accipicchia!
Loro, che sono stati i miei sensei, i quali in virtù della loro saggezza ed esperienza, mi insegnarono i fatti del mondo, e mi addestrarono per diventare una degna guerriera. Ovverosia, mi aiutavano con i compiti a casa per evitare che prendessi un brutto
voto.
Eravamo come Hansel e Gretel, solo con un Hansel in più, i quali insieme si avventuravano imprudenti tra i boschi, per essere poi indotti dalla loro golosità ad addentrarsi nella casa di pan di zenzero della strega. Ovvero, noi tre insieme, ci radunavamo di sovente in cucina a gustare i biscotti con il latte o la cioccolata calda
preparati dalla nostra mamma.
Loro sono stati le mie cariatidi, i miei appoggi, i quali saldi mi tenevano stabile, con le loro coccole e con i loro baci. Come spesso accade in queste circostanze, i piccoli imitano e adorano i grandi. Gli allievi imparano e ben rispettano il maestro. Per me loro erano esattamente questo, i miei maestri, e io la loro allieva, desiderosa di
assorbire come una spugna tutto il buonsenso che solo dei bambini più grandi di me potevano avere.
Proprio per tal motivo, si può dire senza enfasi, che io e i miei fratelli giocavamo praticamente sempre insieme. Eravamo come dei dioscuri¹.
Il nostro legame si fortificava di giorno in giorno, cresceva sempre più. Rigoglioso e robusto, allo stesso modo di come cresce una quercia in un giardino. Ma mentre le radici di quest’ultima si nutrono di terriccio e acqua, diversamente il nostro legame si nutriva di lacrime, di sorrisi, litigate e riappacificazioni.
Ancor ‘oggi, se evado dalla frenesia quotidiana. Se fuggo, per trovare un attimo di tranquillità, magari sul letto della mia stanza, e comincio con il lasciare che le palpebre superiori e inferiori si congiungano. Se lascio distendere, e poi subito ricadere la fronte. Se abbandono le spalle in balia della gravità, e libero la tensione accumulata.Ecco che la psiche mia, come uno psicopompo, mi permette di navigare tra i miei ricordi antichi. Quasi stessi rivivendo quella scena. Quasi si svolgesse proprio ora nella mia cameretta, sono in grado di vedere vividamente quei tre bambini, che scorrazzano qua e là per la casa, baciati dalla luce del sole e permeati da un’aria fresca e frizzante. Un’aria le cui qualità non so tradurre a parole, se non servendomi di un termine vago ed enigmatico come lo è la voce “strana”, “magica”.
Mi è permesso di udire e percepire con la pelle e le orecchie mie, io e i miei fratelli, che stretti come sardine ci intrufoliamo sotto le coperte, nel mentre sghignazziamo sotto i baffi. E altresì, percepisco le mie narici, che con sforzo via via progressivo, fiutano l’aria ormai sempre più calda e rarefatta per via dei nostri respiri.
Mi è concesso di sentire chiaramente, con i timpani miei, la voce acuta di mio fratello, il quale intraprende una conta alla rovescia: 30, 29, 28, 27…
Come fossi stata risucchiata dalla mia stessa memoria per essere trascinata in quell’istante, giungo ad avvertire, nel sangue mio, l’adrenalina che scorre e agita tutto il corpicino a me appartenente. Capto quell’ansietta che mi sopraggiunge, e che mi porta a una risata trepidante. Quasi mi stessi muovendo davvero, riesco con gli occhi, a vedere le mie gambe e le mie braccia indaffarate. Per mezzo della mia epidermide e dei miei nervi, percepisco la solidità del pavimento che calpesto veloce. Che si infrange sui miei piedi, coperti solo da delle calze leggere. Dipiù, percepisco la rigidità del muro, che inavvertitamente colpisco, e che mi causa un dolore alla spalla. È così intenso, che pure lì, nella solitudine e calma della mia stanza e del mio letto, mi esce una smorfia a contorcermi il viso. Ma poi, rilascio nuovamente i muscoli e condenso le mie memorie, cosicché ritorno in quella scena.
La mia psiche, si confonde con la stessa di quella bambina, di modo che, arrivo a percepire la smania dei pensieri che la affollano. I calcoli fuggenti che provvedono a trovare uno spazio dove potermi rifugiare, per non essere scovata. Perché non voglio perdere a nascondino. Quasi fossi ormai pienamente un tutt’uno con quella bambina, giro all’insù il mio capo con fatica. Sono sotto il letto. Con gli occhi, vedo solo i piedini dell’altro mio fratello, tutto preso a nascondersi da qualche parte in casa, in quanto accomunati dallo stesso obiettivo.
Se mi isolo dall’ansietà del mondo. Se chiudo gli occhi. Se inspiro profondamente, gonfiando il mio addome e immettendo una grande massa d’aria nei polmoni. Se poi espiro, rilasciando tutta la tensione muscolare, e mi rilasso lasciando cadere in giù le spalle. Ecco che ho l’occasione di lasciarmi inebriare dai ricordi, i quali spuntano come fiori. E li odoro rapida, un attimo prima che scompaiono come bolle di sapone. Ecco che un flashback, abbaglia i sulci e giri del mio cervello. E rivivo.
Ecco che emerge innanzi ai miei occhi, una bicicletta dalla tinta scura. Quella medesima bici, di cui i miei fratelli, nelle vesti di istruttori, mi svelarono i meccanismi.Quante volte il mio viso ha incontrato la terra e la polvere, mentre grottescamente, a mo’ di equilibrista, cercavo di bilanciare le sue ruote? Allo stesso tempo, quante volte i miei fratelli hanno dovuto porgere le loro braccia per rialzarmi? Quanto sudore e lacrime ho versato, per sforzarmi di non interrompere le mie partenze, perché timorosa di andare a sbattere da qualche parte? Allo stesso modo, quante volte i miei fratelli hanno dovuto ripetere, come dischi rotti, i loro consigli e i loro trucchi per permettermi di manovrarla correttamente?
Ebbene, certamente numerose volte, ma non importa, giacché in seguito imparai a guidarla egregiamente. O meglio… forse… Esito di questo modo in quanto, stampato nella mia memoria indelebile, vi ritrovo un accadimento, peraltro a dirla tutta non molto piacevole.
Ma in fin dei conti, non sono sempre i ricordi più imbarazzanti e terribili a sostare più a lungo nella memoria?
Quella volta mi trovavo nella discesa che si estende proprio nei pressi di casa mia. I raggi solari discendevano profondendo della calura nel clima sottostante. Ma non troppa. Era una giornata di mezza stagione. L’aria era sferzata, saltuariamente, dal soffio di Zefiro, da una brezza rinfrescante. Forte della mia preparazione e desiderosa di imitare i miei fratelli, decisi pazzamente di percorrere interamente quel pendio a tutta velocità.
Forse confidavo troppo nelle mie abilità da ciclista? Forse confidavo troppo nelle conclusioni a cui la mia mente da bambina era arrivata?
Essa, come un regista di Hollywood aveva fabbricato una sceneggiatura sensazionale. In cui la piccola attrice protagonista, con il corpo incurvato in avanti e le gambe turbinanti, avrebbe in sella alla sua bicicletta, come un fulmine, sfrecciato temeraria
lungo quella tortuosa e incredibile discesa. Con il sudore della fronte che svolazzava in aria, con un sorriso a 32 denti stampato in volto, e, ancora di più, con le braccia sbandierate al vento, avrebbe fastosa di poi superata la soglia di arrivo. Avrebbe con la sola forza del proprio corpo, aumentata certamente dalla velocità della folle corsa, reciso il nastro della vittoria, e, per concludere, trionfalmente sollevato al cielo la coppa d’oro, simbolo della riuscita di quell’impresa su ruote.
Ero certamente inconsapevole che la realtà sarebbe stata ben peggiore.
È vero, inizialmente sembrava filare tutto liscio come l’olio. Sentivo il vento graffiarmi gli occhi e solleticarmi le ciglia. Percepivo come se il vento cercasse di aggrapparsi al mio corpo, il quale però facendo resistenza obbligava l’aria a infrangersi inutilmente. Mi sembrava che da un momento all’altro, complice la velocità crescente, mi sarei trovata a volare in cielo, come fanno gli aerei in pista. Mi sembrava, che da lì a poco, sarei divenuta come una di quelle rondini che cinguettavano e svolazzavano sopra la
mia testa.
Ma ecco l’imprevisto! Iniziai a perdere il controllo. Le ruote zigzagavano. I freni della bici che guidavo avevano smesso di darmi segni di vita; parevano essere scappati per salvarsi, almeno loro, consci della tragedia che sarebbe capitata da lì a poco. Più che
al Tour de France, mi sembrava di competere in una gara di pattinaggio sul ghiaccio, stile mosca cieca. Difatti, non passò che qualche secondo, che caddi rovinosamente sul terreno.
SBAM! Mi feci molto male.
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Coperta da una nube di terra e polvere, notai il mio ginocchio sbucciato. Proprio come si trattasse di un pomodoro spellato, la pelle che rivestiva la mia rotula era ricoperta di sangue rosso vivo.
Eppure, nonostante questa fantasia infantile mi avesse procurato così tanto dolore fisico, e nonostante adesso mi trovassi lì, in mezzo a fango e polvere, grondante di lacrime - per via sia dallo spavento generato dal fatto che quella rotolata avrebbe potuto procurarmi danni ben peggiori, sia dal terrore che comunque mi pervadeva, alla vista di quella scena cruenta -, or dunque, nonostante questo, se rivivo a fondo quel momento, io non posso che ammettere di essere stata felice. Ero contenta, considerato che, dopotutto, non mi importava più di tanto di quella sofferenza corporale. Perché avrebbe dovuto togliermi il sorriso? Lì, già vedevo discendere il magico Crisomallo, il quale lesto si premurava ad avvolgermi nel vello d’oro. Lì, c’era la mia mamma, che sì è vero, si trovava insinuata dall’angoscia. Tutta in preda alla preoccupazione e alla paura. Ma comunque, era lì accanto a me, pronta a consolarmi, munita di disinfettante e di cerotti con cui riparare quella brutta ferita. Anch’essa padroneggiante di magia, di un bacio incantato. Un bacio, che avrebbe permesso alla ferita di guarire più in fretta. Neppure quella sconfitta, degna del peggiore dei supercattivi, sarebbe stata in grado di rubarmi via le mie floride labbra arcate insù. A rubarmi quell’euforia stampata nella mia mente e nel mio spirito, vivificata come una fiamma, dall’amore. Ambedue consegnato e ritirato dai miei fratelli, dalla mia mamma e dal mio papà. Una fiamma che all’ora credevo fosse inestinguibile. Immobile, costante al mio fianco.
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